Favole di Natale

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  1. lacasadelsole
     
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    LA NOTTE DI NATALE


    presepio-natale

    Io racconto ai bambini questa storia
    perché lui era un bimbo come loro:
    aveva belli gli occhi e i ricci d’oro,
    o forse neri, non contano i colori.

    Era tersa la notte in cui era nato,
    le stelle, dopo che era nevicato,
    regalavano luce a quei pastori
    che andavano alla grotta a tarda ora.
    Il gelo non sentivano col vello,
    andare dal bambino era assai bello
    e andavano tutti gli animali
    e il lupo quieto più non ululava.

    E c’era quella donna accanto a lui,
    sublime, bella, dolce creatura.
    Lei aveva un amore così grande
    che lo scaldava come fa una fiamma
    con le carezze dolci della mamma.
    Sapevano i pastori che il bambino
    nasceva per salvare tutti quanti
    attraverso parole di perdono,
    di pace, di salvezza e tanto amore.

    Ma quella grande gioia della signora
    era turbata già da un gran timore
    per tutto il male che colpisce i buoni
    e infierisce sulle anime più belle,
    con odio grande per il bambinello.

    Cantavano i pastori tutti insieme,
    suonavano zampogne e cornamuse,
    la musica aleggiava dentro l’aria
    di quella notte, la notte di Natale.

    di Elisa Barone



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  2. lacasadelsole
     
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    LA FESTA DI NATALE

    toys-natale
    Dovete dunque sapere che la Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina.

    Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l'Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne' sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata.

    La contessa passava molti mesi all'anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de' suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata.

    Finita l'ora della lezione, il più gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno!

    Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se fosse stato un cavallo vero. Basta dire, che non passava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati. E se per caso il cavallo si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli diceva accarezzandolo:

    «Vedo bene che questa sera non hai fame. Pazienza: i lupini li mangerò io. Addio a domani, e dormi bene».

    E perché il cavallo dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una materassina ripiena d'ovatta: e se la stagione era molto rigida e fredda, non si dimenticava mai di coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di lana e fatto cucire apposta dal tappezziere di casa.

    Alberto, il fratello minore, aveva un'altra passione. La sua passione era tutta per un bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, moveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare un uomo vero: e per essere un uomo vero, non gli mancava che una sola cosa: il parlare.

    Figuratevi la bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, avesse preso la cocciutaggine di non voler discorrere a modo e verso, come discorrono tutte le persone per bene, che hanno la bocca e la lingua.

    E fra lui e Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere di questi:

    «Buon giorno, Pulcinella», gli diceva Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal piccolo armadio dove stava riposto. «Buon giorno, Pulcinella.»

    E Pulcinella non rispondeva.

    «Buon giorno, Pulcinella», ripeteva Alberto.

    E Pulcinella, zitto! come se non dicessero a lui.

    «Su, via, finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, Pulcinella.»

    E Pulcinella, duro!

    «Se non vuoi parlare con me, guardami almeno in viso» diceva Alberto un po' stizzito.

    E Pulcinella, ubbidiente, girava subito gli occhi e lo guardava.

    «Ma perché», gridava Alberto arrabbiandosi sempre di più, «ma perché se ti dico "guardami" allora mi guardi; e se ti dico "buon giorno" non mi rispondi?»

    E Pulcinella, zitto!

    «Brutto dispettoso! Alza subito una gamba!»

    E Pulcinella alzava una gamba.

    «Dammi la mano!»

    E Pulcinella gli dava la mano.

    «Ora fammi una bella carezzina!»

    E Pulcinella allungava il braccio e prendeva Alberto per la punta del naso.

    «Ora spalanca tutta la bocca!»

    E Pulcinella spalancava una bocca, che pareva un forno.

    «Di già che hai la bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon giorno.»

    Ma il Pulcinella, invece di rispondere, rimaneva lì a bocca aperta, fermo e intontito, come, generalmente parlando, è il vizio di tutti gli omini di legno.

    Alla fine Alberto, con quel piccolo giudizino, che è proprio di molti ragazzi, cominciò a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non volesse parlare né rispondergli, perché era indispettito con lui. Indispettito!... e di che cosa? Forse di vedersi mal vestito, con un cappellaccio in capo di lana bianca, una camicina tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini così corti e striminziti, che gli arrivavano appena a mezza gamba.

    «Povero Pulcinella!», disse un giorno Alberto, compiangendolo sinceramente, «se tu mi tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti. Io ti mando vestito peggio di un accattone... ma lascia fare a me! Fra poco verranno le feste di Natale. Allora potrò rompere il mio salvadanaio... e con quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza d'oro e mezza d'argento.»


    Per intendere queste parole di Alberto, occorre avvertire che la Contessa aveva messo l'uso di regalare a' suoi figli due o tre soldi la settimana, a seconda, s'intende bene, de' loro buoni portamenti. Questi soldi andavano in tre diversi salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di Alberto e quello dell'Ada. Otto giorni avanti la pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina, come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi qualche cosa di loro genio.

    Luigino, com'è naturale, aveva pensato di comprare per il suo cavallo una briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e una bella gualdrappa, da potergliela gettare addosso, quando era sudato.

    L'Ada, che aveva una bambola più grande di lei, non vedeva l'ora di farle un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la moda, e un paio di scarpine scollate per andare alle feste da ballo.

    In quanto al desiderio di Alberto, è facile immaginarselo. Il suo vivissimo desiderio era quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso, da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni.

    Intanto il Natale s'avvicinava, quand'ecco che una mattina, mentre i due fratelli con la loro sorellina, andavano a spasso per i dintorni della villa, si trovarono dinanzi a una casipola tutta rovinata, che pareva piuttosto una capanna da pastori. Seduto sulla porta c'era un povero bambino mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia.

    «Zio Bernardo, ho fame», disse il bambino con una voce sottile, sottile, voltandosi appena con la testa verso l'interno della stanza terrena.

    Nessuno rispose.

    In quella stanza terrena c'era accovacciato sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la testa fra le mani.

    «Zio Bernardo, ho fame!...», ripeté dopo pochi minuti il bambino, con un filo di voce che si sentiva appena.

    «Insomma vuoi finirla?», gridò l'uomo dalla barbaccia rossa. «Lo sai che in casa non c'è un boccone di pane: e se tu hai fame, piglia questo zoccolo e mangialo!»

    E nel dir così, quell'uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e glielo tirò. Forse non era sua intenzione di fargli del male; ma disgraziatamente lo colpì nel capo.

    Allora Luigino, Alberto e l'Ada, commossi a quella scena, tirarono fuori alcuni pezzetti di pane trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a offrirli a quel disgraziato figliolo.

    Ma il bambino, prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a mezza voce:

    «Grazie... ora non ho più fame...».

    Quando i ragazzi furono tornati alla villa, raccontarono il caso compassionevole alla loro mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non parlarne più.

    Alberto, per altro, non se l'era dimenticato: e tutte le sere andando a letto, e ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e tremante dal freddo, diceva grogiolandosi fra il calduccio delle lenzuola:

    «Oh come dev'essere cattivo il freddo! Brrr...».

    E dopo aver detto e ripetuto per due o tre volte «Oh come dev'esser cattivo il freddo!» si addormentava saporitamente e faceva tutto un sonno fino alla mattina.

    Pochi giorni dopo accadde che Alberto incontrò per le scale di cucina la Rosa: la quale era l'ortolana che veniva a vendere le uova fresche alla villa.

    «Sor Albertino, buon giorno signoria», disse la Rosa: «quanto tempo è che non è passato dalla casa dell'Orco?»

    «Chi è l'Orco?»

    «Noi si chiama con questo soprannome quell'uomo dalla barbaccia rossa, che sta laggiù sulla via maestra.»

    «O il suo bambino che fa?»

    «Povera creatura, che vuol che faccia?... È rimasto senza babbo e senza mamma, alle mani di quello zio Bernardo...»

    «Che dev'essere un uomo cattivo e di cuore duro come la pietra, non è vero?», soggiunse Alberto.

    «Pur troppo! Meno male che domani parte per l'America... e forse non ritornerà più.»

    «E il nipotino lo porta con sé?»

    «Nossignore: quel povero figliuolo l'ho preso con me, e lo terrò come se fosse mio».

    «Brava Rosa.»

    «A dir la verità, gli volevo fare un po' di vestituccio, tanto da coprirlo dal freddo... ma ora sono corta a quattrini. Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla meglio a primavera.»

    Alberto stette un po' soprappensiero, poi disse:

    «Senti, Rosa, domani verso mezzogiorno ritorna qui, alla villa: ho bisogno di vederti.»

    «Non dubiti.»


    Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, tanto desiderato, tanto rammentato: il giorno, cioè, in cui celebravasi solennemente la rottura de' tre salvadanai.

    Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci lire: l'Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi trovò nove lire e mezzo.

    «Il tuo salvadanaio», gli disse la mamma, «è stato più povero degli altri due: e sai perché? perché in quest'anno tu hai avuto poca voglia di studiare.»

    «La voglia di studiare l'ho avuta», replicò Alberto, «ma bastava che mi mettessi a studiare, perché la voglia mi passasse subito.»

    «Speriamo che quest'altr'anno non ti accada lo stesso» soggiunse la mamma: poi volgendosi a tutti e tre i figli, seguitò a dire: «Da oggi alla pasqua di Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi. In questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, ognuno di voi è padronissimo di fare quell'uso che vorrà, dei danari trovati nel proprio salvadanaio. Quello poi, di voialtri, che saprà farne l'uso migliore, avrà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio.»

    "Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo.

    "Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé l'Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola.

    "Il bacio tocca a me di certo!", disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella.

    Ma nel tempo che egli pensava al Pulcinella, sentì la voce della Rosa che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, gridava:

    «Sor Alberto! sor Alberto!».

    Alberto scese subito. Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so che quella buona donna, nell'andarsene, ripeté più volte:

    «Sor Albertino, lo creda a me: lei ha fatto proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene anche a lei e a tutta la sua famiglia!».


    Otto giorni passarono presto: e dopo otto giorni arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo chiamano i fiorentini.

    Finita appena la colazione, ecco che la Contessa disse sorridendo ai suoi tre figli:

    «Oggi è Natale. Vediamo, dunque, come avete speso i quattrini dei vostri salvadanai. Ricordatevi intanto che, quello di voialtri che li avrà spesi meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio. Su, Luigino! tu sei il maggiore e tocca a te a essere il primo».

    Luigino uscì dalla sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il suo cavallo di legno, ornato di finimenti così ricchi, e d'una gualdrappa così sfavillante, da fare invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani.

    «Non c'è che dire», osservò la mamma, sempre sorridente «quella gualdrappa e quei finimenti sono bellissimi, ma per me hanno un gran difetto... il difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero cavallino di legno. Avanti, Alberto! Ora tocca a te.»

    «No, no», gridò il ragazzetto, turbandosi leggermente, «prima di me, tocca all'Ada.»

    E l'Ada, senza farsi pregare, uscì dalla sala, e dopo poco rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto lei, e vestita elegantemente, secondo l'ultimo figurino.

    «Guarda, mamma, che belle scarpine da ballo!», disse l'Ada compiacendosi di mettere in mostra la graziosa calzatura della sua bambola.

    «Quelle scarpine sono un amore!», replicò la mamma. «Peccato però che debbano calzare i piedi d'una bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà mai ballare!»


    «E ora, Alberto, vediamo un po' come tu hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel tuo salvadanaio.»

    «Ecco... io volevo... ossia, avevo pensato di fare... ossia, credevo... ma poi ho creduto meglio... e così oramai l'affare è fatto e non se ne parli più.»

    «Ma che cosa hai fatto?»

    «Non ho fatto nulla.»

    «Sicché avrai sempre in tasca i danari?»

    «Ce li dovrei avere...»

    «Li hai forse perduti?»

    «No.»

    «E, allora, come li hai tu spesi?»

    «Non me ne ricordo più.»

    In questo mentre si sentì bussare leggermente alla porta della sala, e una voce di fuori disse:

    «È permesso?.»

    «Avanti.»

    Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, indovinate chi! Si presentò la Rosa ortolana, che teneva per la mano un bimbetto tutto rivestito di panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di panno, nuovo anche quello, e in piedi un paio di stivaletti di pelle bianca da campagnolo.

    «È tuo, Rosa, codesto bambino?», domandò la Contessa.

    «Ora è lo stesso che sia mio, perché l'ho preso con me e gli voglio bene, come a un figliolo. Povera creatura! Finora ha patito la fame e il freddo. Ora il freddo non lo patisce più, perché ha trovato un angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue spese da capo a piedi.»

    «E chi è quest'angelo di benefattore?», chiese la Contessa.

    L'ortolana si voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e accennandolo alla sua mamma, disse tutta contenta:

    «Eccolo là.»

    Albertino diventò rosso come una ciliegia: poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, cominciò a gridare:

    «Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontar nulla a nessuno!...».

    «La scusi: che c'è forse da vergognarsi per aver fatto una bell'opera di carità come la sua?»

    «Chiacchierona! chiacchierona! chiacchierona!», ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre più; e tutto stizzito fuggì via dalla sala.

    La sua mamma, che aveva capito ogni cosa, lo chiamò più volte: ma siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla poltrona e andò a cercarlo da per tutto. Trovatolo finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio un bacio, gliene dette per lo meno più di cento.


    di Carlo Collodi

     
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    Le Renne di Babbo Natale

    Nik

    lo sapevate che le renne che trascinano la slitta di Babbo Natale devono essere rigorosamente otto. Il Perché proprio non lo so bisognerebbe chiederlo a lui!
    Ebbene, sentite cosa accadde lo scorso anno!
    Il Natale si stava avvicinando a grandi passi, il mondo cominciava a coprirsi di luci, suoni, colori, l´atmosfera era quella di un momento di magia... e Babbo Natale era già in agitazione: carico di regali per i bimbi di tutto il mondo, si preparava a partire, quando gli accadde un bel guaio. Scheggia, Fulmine, Furia e Ardore, quattro delle sue fedelissime, ma ormai vecchie renne, dopo ben cento anni di onorato servizio decisero di andare in pensione, non se la sentivano più di affrontare tante fatiche...
    Che fare? 100 anni di lavoro erano veramente molti e il Buon Vecchio non poteva rifiutare quella richiesta.
    Subito si mise al lavoro, preparò un grandissimo cartello con queste parole: "Cercasi renne, stipendio ottimo, disponibilità immediata..." e lo appese sulla porta di casa. Ma passavano i giorni e non si presentava nessuno. Babbo Natale era molto preoccupato, telefonava in continuazione, mandava e-mail in tutto il mondo e fax negli angoli più sperduti del cielo ... finalmente si presentarono quattro dolcissime renne: una giovane coppia di sposi con due piccoli maschietti renna dagli occhi languidi e sognanti; erano disoccupati, venivano da molto lontano, cercavano una casa ed avevano bisogno di lavorare.
    Questa tenera famigliola piacque subito a Babbo Natale che accolse con gioia papà, mamma ed i piccoli, ma come in tutte le storie c'era un MA: i piccoli sarebbero stati capaci di trainare con forza la pesante slitta carica di regali?
    Allora mamma renna ebbe un´idea geniale: comprò otto pattini e li infilò alle zampe dei suoi piccoli Lampo e Notte e fu un successone!!!!
    La batteria di renne si ricompose immediatamente, Lampo e Notte, aiutati dai loro pattini non sentivano la fatica e volavano come razzi superando ogni ostacolo, e così, come sempre, Babbo Natale fu puntuale nel consegnare un sacco di doni a tutti i bambini.

    babbo_natale_slitta_stelle


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  4. lacasadelsole
     
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    LE LEGGENDE DELL’ALBERO DI NATALE


    Xmas_Tree


    In un villaggio di campagna, la Vigilia di Natale, un ragazzino si recò nel bosco alla ricerca di un ceppo di quercia da bruciare nel camino, come voleva la tradizione.
    Si attardò più del previsto e venuto il buio, non seppe ritrovare la strada per tornare a casa. Per giunta cominciò a cadere una fitta neve.
    Il ragazzo si sentì assalire dall'angoscia e pensò a come, nei mesi precedenti, aveva atteso quel Natale, che forse non avrebbe potuto festeggiare. Nel bosco, ormai spoglio di foglie, vide un albero ancora verdeggiante e si riparò dalla neve sotto di esso: era un abete. Cominciò a sentirsi stanco e si addormentò raggomitolandosi ai piedi del tronco. L'albero, intenerito, abbassò i suoi rami fino a far toccare loro il suolo in modo da proteggerlo dalla neve e dal freddo. La mattina si svegliò, sentì in lontananza le voci degli abitanti del villaggio che si erano messi alla sua ricerca e uscito dal suo riparo, poté riabbracciare i compaesani.
    Solo allora tutti si accorsero del meraviglioso spettacolo che si presentava davanti ai loro occhi: la neve caduta nella notte, posandosi sui rami frondosi, aveva formato dei festoni, delle decorazioni e dei cristalli che alla luce del sole dell'alba sembravano luci sfavillanti di uno splendore incomparabile.
    In ricordo di quel fatto gli abeti nelle foreste hanno mantenuto la caratteristica di avere i rami pendenti verso terra e sono diventati il simbolo del Natale; in tutte le case vengono addobbati ed illuminati, quasi per riprodurre lo spettacolo che videro quel mattino gli abitanti del piccolo villaggio.

    cartolina-auguri-natale
    Molte leggende narrano che l'abete è uno degli alberi dal giardino dell'Eden.
    Una narra che l'abete è l'albero della Vita le cui foglie si avvizzirono ad aghi quando Eva colse il frutto proibito e non fiorì più fino alla notte in cui nacque Gesù Bambino.

    sfondo-natale

    Un'altra leggenda narra che Adamo portò un ramoscello dell'albero del bene e del male con lui dall'Eden. Questo ramoscello più tardi divenne l'abete che fu usato per l'albero di Natale e per la Santa Croce.


    palla_vetro


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    Piccolo Albero di Natale


    anisnointrees


    C’era una volta un piccolo albero di Natale che, quando parlava con mamma albero di Natale e papà albero di Natale, non vedeva l’ora di poter mettersi addosso le palline colorate, i festoni argentati e le lampadine. Sognava ogni notte il suo momento, entrare nel salotto buono, gustarsi i sorrisi gli auguri in famiglia, lasciarsi sfuggire una lacrima di resina dalla contentezza.

    E venne finalmente il giorno del piccolo albero di Natale. Venne scelto quasi per caso tra tanti amici alberi di Natale anche loro. Pensava: "Adesso è venuto il mio momento, adesso sono diventato grande". Il viaggio fu lungo, incappucciato di stoffa bagnata per non perdere il verde luminoso dei rami ancora giovani. Tornata la luce, il piccolo albero di Natale si trovò nella casa di una famiglia povera. Niente palline, niente festoni, solo il suo verde scintillante faceva la felicità dei bambini che lo stavano a guardare con gli occhi all’insù, affascinati. Era il loro primo albero di Natale. Subito fu deluso, sperava di poter dominare una sala ricca di regali e di addobbi eleganti.

    Ma passarono i giorni e si abituò a quella casa povera ma ricca di amore. Nessuno aveva l’ardire di toccarlo. Venne la sera di natale e furono pochi i regali ai suoi piedi ma tanti i sorrisi di gioia dei bambini che per giorni erano rimasti a guardarli sotto il suo sguardo severo per cercare di indovinare che cosa ci fosse dentro. Venne il pranzo di Natale, niente di speciale. Venne Capodanno, con un brindisi discreto, ma auguri sinceri. E venne anche l’Epifania e il momento di andare via. Questa volta non lo incappucciarono. Lo tolsero dal vaso, gli bagnarono le radici e tutta la famiglia lo accompagnò verso il bosco. Era felice di ritornare con mamma albero di Natale e papà albero di Natale. Passando per la strada vide tanti suoi amici, ancora con le palline colorate e i fili d’oro e d’argento, che lo salutavano. Ma c’era qualcosa di strano, erano tutti nei cassonetti della spazzatura, ricchi e sventurati, piangevano anche loro resina, ma non per la contentezza. Chissà dove sarebbero finiti!

    Ora il piccolo albero di Natale è diventato un abete grande e possente, ha visto tanti figli andare in vacanza per le feste. Qualcuno è ritornato, sano o con un ramo spezzato. Lui guarda da lontano la città dove i bambini del suo Natale lo hanno amato e rispettato. Perché è un albero di Natale, albero di Natale tutto l’anno, perché Natale non vuol dire essere buoni e bravi solo il 25 dicembre, perché Natale può essere ogni giorno. Basta volerlo come quel piccolo albero di Natale che ci tiene compagnia sulla montagna, anche se lontano, anche se non lo vediamo.

    E c’era una volta e c’è ancora oggi, un albero di Natale. Sempre diverso e sempre uguale, quasi un caro amico di famiglia che si presenta ogni anno per le vacanze, le sue vacanze, da Santa Lucia all’Epifania. Grande, piccolo, verde o dorato, testimone di ogni Natale, un amico con il quale aspettare l’apertura dei regali e l’occasione buona per scambiarsi gli auguri, per fare la pace, per dirsi anche una parola d’amore. E tutti vogliamo bene all’albero di Natale, ogni anno disposti ad arricchire il suo abbigliamento con nuove palline colorate, un puntale illuminato e addobbi d’oro e d’argento. È cresciuto con noi, cambiato ogni anno, sempre più bello agli occhi di chi guarda, occhi di bambino, ma anche occhi di adulto che vuole tornare bambino. Per quei giorni di festa è lui a fare la guardia al focolare, a salutare quando si rientra a casa, a tenere compagnia a chi è solo. Una presenza che conforta, non solo nell’anima. È meglio se l’albero è di quelli con le radici, pronto a dismettere l’albero della festa e a compiere il suo dovere in mezzo ai boschi, a diventare grande, libero e felice.

    <a href="http://lafatablu.altervista.org/Natale/Natalefiaba8.html" target="_blank">http://lafatablu.altervista.org/Natale/Natalefiaba8.html</a
     
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  7. lacasadelsole
     
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    La vera storia del Fiocco di neve

    Il piccolo Alim stava guardando dalla finestra la neve che scendeva, i fiocchi ballavano un dolce ritmo e si appoggiavano su tutte le cose. Sugli alberi, sopra i fili del bucato, sulle grondaie; il bambino fissò un grande fiocco che sembrava venisse proprio verso la sua casa, aprì la finestra e allungò la mano.

    Come per incanto il fiocco si adagiò sopra il suo palmo e il bambino pensava quanto sarebbe stato bello se il fiocco avesse potuto parlare e raccontare la sua avventura; era così bello, bianco e pulito, e che forma tonda aveva...
    «E così vorresti conoscere la mia storia?»
    Alim annuì.
    «Qualche mese fa ero una goccia d'acqua e insieme ad altri miliardi di gocce vivevamo nel Mar Caspio, arrivò l'estate e io volli starmene un po' sdraiato al sole, così mi addormentai ed evaporai».
    «Quando mi risvegliai mi sentii leggero, il vento mi stava trasportando su nel cielo, finché non vidi più gli uomini; c'erano con me altri vapori e tutti insieme spinti dal vento ci appiccicavamo gli uni agli altri. Non so per quanto tempo vagammo nel cielo, eravamo saliti molto in alto, l'aria era fredda e perciò ci stringemmo tutti senza più poter muovere mani e piedi».
    decorazioni-natalizie4

    «Non sapevamo dove andavamo, eravamo così grandi, grossi e lunghi da aver coperto il sole. Qualcuno disse che saremmo divenuti pioggia per tornare sulla terra. Ero felice di rivedere la terra, poi cominciai a trasformarmi in acqua e pian piano diventammo pioggia. Brrr... all'improvviso il clima divenne freddo e tutti insieme cominciammo a tremare, qualcuno vicino a me più vecchio e saggio mi tranquillizzò, ma non poté finire il discorso perché si trasformò in neve e anch'io mi trasformai in questo fiocco che ora è nelle tue mani!».
    decorazioni-natalizie4
    Mentre Fiocco di Neve prendeva fiato, Alim incantato lo pregò di continuare a parlare.
    «Bene amico mio - proseguì Fiocco di Neve - io e mille altri incominciammo a danzare nell'aria e volteggiando scendevamo lenti sulla terra, ero diventato leggero, come una piuma nel cielo, non sentivo più freddo perché il freddo era diventato parte di me. Ballando scendevo sulla terra».
    «Quando fui abbastanza vicino vidi la città di Tabriz, ero molto distante dal Mar Caspio. Un ragazzo giocava col suo cane che, abbaiando, ingoiava fiocchi di neve, ebbi paura e chiesi al vento di esaudire il mio desiderio di non finire nella sua bocca! E così fu. Il vento mi spostò poco più in là e vidi te, sperando col tuo aiuto di poter tornare acq...».
    Fiocco di Neve non poté finire la frase perché si era sciolto ed era tornato acqua.
    Allora Alim soddisfatto pose le sue mani nell'acqua e lo fece ricongiungere con altri milioni di gocce.
    Poi il bambino si addormentò e sognò di essere una goccia di acqua fredda.




    Fiaba iraniana di Samad Behranghi
    Traduzione di Asghar Ebrahimi


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